on the left Giorgio Gomel during the meeting of JCall’s delegation in Ramallah with Prime minister Salam Fayyad (april 2013)
Confronti is an Italian monthly magazine sponsored by the Federation of Evangelical churches and dedicated to interreligious and intercultural dialogue, human rights and progressive social issues.
In this interview I discuss the aftermath of the Gaza war and the attempt at turning a fragile cease-fire agreement between Israel and Hamas into a more permanent accord involving the Palestinian authority as the legitimate counterparty following the formation of a “national unity” government and the provider of a security force at the border crossings under the umbrella of a mechanism of international supervision.
I also underscore the growing political isolation of Israel in the world – as confirmed by the evolving positions of European countries on the question of the recognition of Palestine as a state – and stress that the defence of the statu quo and the lack of a peace-oriented strategy by the Israeli government coupled with the continuing expansion of settlements is self-destructive. The lack of response to the Arab peace initiative of 2002 is a case in point particularly in the present juncture where a convergence of interests is apparent between Israel, the PNA and moderate Arab states in fighting against Islamist extremism.
Giorgio Gomel
Intervista a Giorgio Gomel, rappresentante di Jcall-Italia (www.jcall.eu), il movimento d’opinione di ebrei di più paesi europei nato nel 2010 sulla base di un «Appello alla ragione» presentato al Parlamento europeo.
Il movimento JCall riunisce ebrei appartenenti a varie nazioni europee, sostiene una soluzione del conflitto basata sul principio di «due stati per due popoli» e la scorsa prima- vera ha lanciato un Appello ai leader europei per presentare a israeliani e palestinesi un ac- cordo-quadro concordato con gli Stati Uniti. All’economista Giorgio Gomel, membro di JCall-Italia, abbiamo rivolto alcune doman- de sullo stato della situazione in Medio Oriente e le prospettive di pace.
Quest’ultimo conflitto armato fra israeliani e palestinesi sembra allontanare ancora di più il processo di pace. Qual è la sua impressione?
È stata una guerra distruttrice, con un numero altissimo di vittime, in particolare civili a Gaza, con un costo umano e materiale molto alto. Il vecchio confitto fra israeliani e palestinesi si è fatto molto più duro. Cercando un appiglio di speranza e ragionando in positivo, penso questo: in termini di realpolitik, al di là della tregua negoziata con la mediazione degli egiziani, adesso c’è un tentativo di trasformare questa tregua in un accordo. Il che è molto complesso, perché implica Israele, l’Anp di Abu Mazen e Hamas. Per Israele è molto difficile, per ragioni di politica interna, negoziare con Hamas e concedere qual- cosa ad Hamas senza il disarmo e la demilitarizzazione di quest’ultimo. Per, d’altra parte, negoziare con Hamas è un fatto: Israele l’ha già fatto per lo scambio di prigionieri con il soldato Gilad Shalit, lo ha fatto nella guerra del 2008-2009 e in altre occasioni.
Pare lo abbia fatto anche durante quest’ultimo conflitto, anche se indirettamente, con la mediazione dell’Egitto…
Sì, lo ha fatto. Forse la cosa più importante oggi sarebbe che Hamas, dopo l’accordo di riconciliazione sotto forma di questo governo unitario palestinese, accettasse di svolgere elezioni e che da lì potesse nascere un governo che abbia una legittimazione popolare. Hamas ha fatto intendere più volte, in modo più o meno indiretto, che se ci fosse un accordo di pace negoziato da un’autorità palestinese legittima e questa facesse poi un referendum popolare e i palestinesi votassero a favore di questo accordo, Hamas lo accetterebbe.
Il conflitto si è ulteriormente complicato con l’infiammarsi di altre zone del Medio Oriente per via dei jihadisti…
Il contesto che circonda questo conflitto è tragico: si pensi al radicalismo islamico e al fatto che c’è un qualche convergere di interessi tra Israele e gli stati arabi moderati (Emirati, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Egitto e la stessa Autorità palestinese) nell’opporsi al radicalismo degli islamisti. Sarebbe bene che Israele cogliesse l’opportunità di questa «convergenza di interessi». È grave che dal 2002 nessun governo di Israele abbia mai risposto all’offerta di pace della Lega araba. Siamo in molti a pensare che sarebbe nell’interesse di Israele cogliere questa offerta di pace perché, oltre ad un’intesa con gli stati moderati contro il radicalismo islamico, aiuterebbe anche a superare la condizione che vive Israele di grande isolamento politico nel mondo.
Riguardo al governo israeliano, come giudica le sue azioni in questa ultima escalation di violenza a Gaza?
È un governo di coalizione nel quale per sono molto forti i partiti di destra, che sono contrari a uno stato palestinese e sostanzialmente pensano che per Israele l’unica strada sia mantenere lo status quo, cioè l’occupazione. Questi partiti e il movimento dei coloni esercitano una pressione molto forte sul governo Netanyahu. Il premier è in minoranza anche nel proprio stesso partito, il Likud, in gran parte contrario alla creazione di uno stato palestinese. È molto difficile che questo go- verno riesca ad arrivare a un accordo di pace. Il fallimento della trattativa mediata dagli americani per mesi e mesi ne è una conferma. Del resto, lo stesso Netanyahu ha detto che il conflitto con i palestinesi è irrisolvibile e l’unica cosa che si pu fare è «contenere il conflitto»: un conflitto «a bassa intensità».
Hamas sembra uscita rafforzata, in termini di popolarità, da quest’ultimo scontro…
Se Israele negozia con Hamas e delegittima Abu Mazen, dà un segnale sbagliato ai palestinesi, lasciandogli credere che l’unica strada per loro sia quella della violenza. In questo modo, Israele rende difficile la posizione di Abu Mazen, che così appare sempre di più come uno che non riesce a ottenere niente.
Come giudica l’assenza dell’Unione europea?
È molto difficile risolvere il conflitto senza un mediatore internazionale. È vero che gli americani hanno fatto un lavoro di grande impegno, anche con l’appoggio implicito degli europei, per hanno fallito. Qualcuno quindi potrebbe pensare che ripetere l’esperimento a distanza di pochi mesi possa essere illusorio. Ma nell’appello della scorsa primavera (quindi prima dell’inasprimento successivo) noi di JCallfacevamo appello ai leader dei paesi europei chiedendo a Europa e Stati Uniti di spingere le parti a riprendere il negoziato. Richiamavamo alcuni principi fondamentali, vale a dire Gerusalemme capitale dei due stati, i confini del 1967 con uno scambio paritario di territori e così via. A luglio abbiamo incontrato il ministro degli Esteri Federica Mogherini che, in vista del suo viaggio in Israele e Territori palestinesi, ci ha chiesto di indicarle alcuni contatti di organismi non governativi israeliani e palestinesi. Adesso le abbiamo chiesto un incontro prima del suo insediamento a Bruxelles. Stiamo insistendo affinché l’Europa non perda l’attenzione verso il conflitto israelo-palestinese.
Dopo questa fragile tregua, il rischio che si torni di nuovo alle armi è sempre presente. Come si può interrompere questa spirale di violenza?
Avremmo bisogno da un lato di un disarmo di Hamas, con la supervisione di una forza internazionale…
Ma Hamas non accetta questa condizione. Come è quasi impossibile che Israele accetti l’apertura di un aeroporto a Gaza.
Per le cose potrebbero cambiare se ci fosse un disarmo sotto la supervisione internazionale e ci fosse un controllo dei punti di passaggio fra l’Egitto e Gaza (Rafah affidato alla polizia dell’Autorità palestinese) e Israele nello stesso tempo riducesse progressivamente l’embargo che, oltre all’importazione di beni dalla Cisgiordania o da Israele a Gaza, limita molto – di fatto proibisce – anche la possibilità di esportare beni da Gaza verso Israele e la Cisgiordania. C’è un interesse anche di Israele a far sì che gli abitanti di Gaza abbiano un qualche spiraglio di progresso economico e civile, perché questo contribuirebbe ad allontanarli da Hamas, che gode dell’appoggio della popolazione civile proprio perché si trova in una situazione disperata.